Il diritto di non essere informati
NewTuscia Toscana – Nella giornata di ieri è stata ufficializzata la notizia che l’Italia, assieme a Francia e Germania e ad altri paesi dell’UE, ha sospeso fino a nuovi accertamenti la somministrazione del vaccino AstraZeneca su tutto il territorio nazionale. Come spesso accade oggi, le reazioni da parte della stampa e dell’opinione pubblica sono state molteplici e polarizzate. Ora, prendendo spunto dall’oceano di polemiche e di articoli piccati di giornalisti che hanno preso, legittimamente, le difese dei propri editoriali, è sorta spontanea una riflessione sul diritto di informazione. Meglio, provocatoriamente, sul diritto di non essere informati.
Quasi tutta la categoria di fronte all’accusa mossa da molti di aver scatenato il panico generalizzato con racconti e titoli talvolta fuorvianti si è trincerata dietro il dovere etico e morale di fare informazione, di raccontare gli eventi: “Le notizie vanno date sempre, tutte”, questo il mantra. Ed eccolo, servito su un piatto d’argento, uno dei migliori slogan dell’incessantismo contemporaneo: il bisogno maniacale di fare un calco più o meno fedele di tutto quello che ci accade intorno. Grazie alle nuove tecnologie e soprattutto grazie alla rete oggi è possibile raccontare un evento letteralmente “live”, cioè dal vivo, mentre si svolge, con tutti i pregi e difetti che una narrazione in contemporanea col fatto narrato può incontrare. Sicuramente questi sono stati grandi passi avanti per il settore dell’informazione. Ma è davvero informazione rigurgitare sul cittadino tutto quello che capita nel mondo, di qualsivoglia tema si tratti? Esiste un limite oltre il quale un’informazione smette di essere tale? Oltre il quale il racconto non è più un arricchimento, ma diviene invece uno stordimento, un “rumore di fondo” che ci impedisce di filtrare l’utile dall’inutile, ciò che ci interessa, da ciò che non ci interessa? Leggendo i numerosissimi articoli sulle altrettanto numerose pagine social di gran parte dei giornali, si ha la netta impressione che questo limite sia stato travalicato da tempo. C’è un fuoco di sbarramento che non conosce fine, un bombardamento mediatico ininterrotto e continuo che fornisce ad un numero sterminato di persone di ogni tipo, cultura, estrazione sociale, una ennupla di notizie, ed il dubbio è che si tratti di troppe informazioni, probabilmente più di quante non sia in nostro potere metabolizzare. Per una sorta di perversa eterogenesi dei fini, si produce l’effetto opposto a quello prefissato: invece di incrementare la consapevolezza del mondo dei cittadini, li si aliena dalla realtà, ingenerando una sorta di caos controllato in cui è sufficiente perdersi un tassello del mosaico per fraintendere completamente il punto del discorso.
Impossibile infatti, anche per il miglior giornalista, inglobare nel proprio racconto dei fatti – che sarà sempre parziale – tutte le sfumature, tutti i grigi e tutti i “ma” che fatti complessi come la questione di questi giorni richiederebbero.
Sarebbe forse stato meglio, anche stavolta, evitare di moltiplicare articoli, articoletti e articolini su quante persone sono decedute dopo la somministrazione di AstraZeneca. Non perché – come alcuni scioccamente dicono – le persone non meritino di sapere, ma semplicemente perché ancora non v’è nulla da sapere! A meno che non si scambi per conoscenza il puro nozionismo, il sapere che la prima vittima era siciliana, la seconda piemontese, quali bar frequentassero, quanti parenti avessero. Quali elucubrazioni potremmo mai fare se le “informazioni” sono queste? Se anche gli esperti dell’Ema hanno bisogno di tempo per vagliare tutte le ipotesi?
Ecco, il tempo. Avremmo bisogno che anche l’informazione si riappropriasse del valore del tempo, della sua lentezza. Perché lenta è la mente umana, lenti sono i processi alla base dei processi cognitivi e del sapere scientifico. Avremmo bisogno di rivendicare il diritto a non essere sopraffatti dalle informazioni.